La Locandiera - 15 gennaio 2009
- Scritto da Alice Casalanguida
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Bastano due sole parole per descrivere gli effetti collaterali provati dopo aver visto la Locandiera portata in scena da Jurij Ferrini e la sua compagnia: la prima è meraviglia.
Meraviglia per la novità, la novità che accompagna tutta la rappresentazione in ogni singolo dettaglio. Perché il testo di Goldoni del 1700 è ridotto all'osso e risulta più attuale di uno del 2009, perché sul palco si recita in jeans e i vestiti pomposi e attillati di Mirandolina sono appesi dietro gli attori quasi a voler rappresentare un vago ricordo, meraviglia perché gli attori si alternano gli uni con gli altri senza mai lasciare il palcoscenico. Si resta così incantati dalle loro facce, dalle loro parole, dai loro movimenti che si ha quasi la sensazione di poter parlare con loro senza che pensino che stai interrompendo la loro esibizione. Nello spettacolo che Jurij Ferrini e l'URT (Unità di Ricerca Teatrale) ci propongono non esistono più la platea e la scena; il pubblico e gli attori partecipano degli stessi sentimenti, delle stesse emozioni: si ride, si piange, si riflette insieme a Mirandolina che cerca di conquistare il cavaliere con tutte le armi che ha in suo potere, per non parlare del cavaliere che da parte sua fa quanto può per resistere... con scarsi risultati! La scenografia poi, ridotta all'essenziale, permette allo spettatore di concentrarsi unicamente sugli attori. E che dire dell'ultima scena? Per Mirandolina conquistare il cavaliere era solo un gioco... povero cavaliere... non crederà più nell'amore... non può essere una satira spietata dei giorni nostri? E la seconda parola? Amarezza. Perché amarezza vi chiederete? Semplice, perché quando si chiude il sipario e le ultime ostinate mani smettono di applaudire, ci si ritrova persi, si sente che lo spettacolo è finito e a meno che non si voglia seguire la compagnia per i teatri di tutta Italia, la magia è finita... E già, l'amarezza per la fine dello spettacolo... Ma dopo tutto è una dolce amarezza... no?
Meraviglia per la novità, la novità che accompagna tutta la rappresentazione in ogni singolo dettaglio. Perché il testo di Goldoni del 1700 è ridotto all'osso e risulta più attuale di uno del 2009, perché sul palco si recita in jeans e i vestiti pomposi e attillati di Mirandolina sono appesi dietro gli attori quasi a voler rappresentare un vago ricordo, meraviglia perché gli attori si alternano gli uni con gli altri senza mai lasciare il palcoscenico. Si resta così incantati dalle loro facce, dalle loro parole, dai loro movimenti che si ha quasi la sensazione di poter parlare con loro senza che pensino che stai interrompendo la loro esibizione. Nello spettacolo che Jurij Ferrini e l'URT (Unità di Ricerca Teatrale) ci propongono non esistono più la platea e la scena; il pubblico e gli attori partecipano degli stessi sentimenti, delle stesse emozioni: si ride, si piange, si riflette insieme a Mirandolina che cerca di conquistare il cavaliere con tutte le armi che ha in suo potere, per non parlare del cavaliere che da parte sua fa quanto può per resistere... con scarsi risultati! La scenografia poi, ridotta all'essenziale, permette allo spettatore di concentrarsi unicamente sugli attori. E che dire dell'ultima scena? Per Mirandolina conquistare il cavaliere era solo un gioco... povero cavaliere... non crederà più nell'amore... non può essere una satira spietata dei giorni nostri? E la seconda parola? Amarezza. Perché amarezza vi chiederete? Semplice, perché quando si chiude il sipario e le ultime ostinate mani smettono di applaudire, ci si ritrova persi, si sente che lo spettacolo è finito e a meno che non si voglia seguire la compagnia per i teatri di tutta Italia, la magia è finita... E già, l'amarezza per la fine dello spettacolo... Ma dopo tutto è una dolce amarezza... no?